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Per Tiziano Treu l’obiettivo è razionalizzare, evitare doppioni, sottrarsi alla tentazione costante del sussidio. Il presidente del Cnel, uno dei padri nobili del welfare italiano, era stato uno dei primi a segnalare – fin dall’inizio della pandemia – che “il welfare state stava tornando centrale negli equilibri del nuovo welfare italiano. Dopo due anni, abbiamo visto che non solo in Italia lo Stato spende sempre di più per la protezione sociale. Gli Stati Uniti hanno speso molto di più dell’Europa, che finalmente ha capito che non è tempo di politiche recessive e di austerità”.

Potrebbe essere il tempo di una affermazione paradossale: più Stato, meno mercato? No. Nonostante il ritorno della protezione sociale dello Stato – e nelle emergenze è forse fisiologico che sia così – la strada dell’integrazione pubblico-privato è senza ritorno. Stefano Zamagni, un altro dei grandi “vecchi” del pensiero sociale italiano, oggi presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali, rivendica un approccio con tre poli: “Pubblico e privato sono solo due soggetti che devono collaborare, senza dimenticare il ruolo di un terzo soggetto, spesso trascurato a parole, ma essenziale nella sua funzione di servizio: il privato sociale”.

TERZO SETTORE E NON SOLO

Il mondo della cooperazione, delle imprese con finalità sociali, del Terzo settore e non solo del volontariato contribuisce in modo essenziale al nuovo equilibrio di assistenza alla persona, alla famiglia alle comunità territoriali. Eppure, questa consapevolezza oggi si scontra con una drammatica diminuzione di risorse. Proprio quando ce n’è più bisogno. Il welfare state è destinato a ridimensionarsi, dopo l’emergenza battente: la finanza pubblica non può che vedersi ridotta, in prospettiva. E il welfare privato deve fare i conti con disponibilità economiche contenute, anche sul fronte delle aziende e dei loro budget. Il privato sociale, dal canto suo, ha sempre avuto la necessità di vivere con parsimonia.

PROFIT E NON PROFIT

Una tempesta perfetta, proprio quando ci si augurano nuovi equilibri. “Credo che la strada maestra debba passare per una piena integrazione di sistema dei vari ‘pezzi’ del welfare, oggi scarsamente comunicanti. A livello locale non ci sono alternative alla realizzazione piena della co-programmazione e co-progettazione dei servizi: così si mette a sistema il welfare pubblico con quello privato (profit e non profit) già oggi presente sui territori. Questo inizia ad accadere nei servizi socio-assistenziali, ma può valere anche in sanità se le Case della Comunità verranno pensate come ambiti di incontro con l’offerta socio-sanitaria che il non-profit garantisce ai meno abbienti”. Luca Pesenti, professore associato al Dipartimento di Sociologia della Cattolica di Milano si augura che “crescenti fette di popolazione, non avendo ulteriori margini di spesa, non finiscano per limitare il loro accesso a diritti fondamentali”.

SI TORNI A DECENTRARE

Emmanuele Massagli, presidente di Aiwa, l’associazione che raccoglie i principali provider di welfare aziendale, punta sul rapporto pubblico-privato che sappia favorire il decentramento: “Ad oggi, la risposta alla grande crisi di welfare che è stato il Covid è stata un nuovo accentramento regolatorio ed economico dell’asse del welfare verso lo Stato. Non solo in Italia, in tutti i Paesi occidentali. Una risposta comprensibile, ma insostenibile nel lungo periodo, resa possibile dalle deroghe ai vincoli e agli sforamenti di bilancio. Continuare su questa strada vuole dire impoverirsi. E’ vero che, contemporaneamente, sono diminuite anche le risorse private e anche questo è stato un argomento a favore del riaccentramento a spese di tutti”.

RESPONSABILITA’ SOCIALE D’IMPRESA

Può diventare centrale il ruolo delle aziende, degli enti bilaterali e dei nuovi orizzonti contrattuali. Massagli continua: “Perché non mettere in circolo le risorse private non tanto dei singoli cittadini, ma delle aziende, sempre più disponibili a offrire welfare in completamento della tradizionale retribuzione? Si tratta di soluzioni senza tasse e contributi, che permettono di attrarre i lavoratori più validi, che qualificano la responsabilità sociale della impresa. Molti ribattono dicendo che è una soluzione iniqua perché perseguibile solo nelle aziende più ricche e più strutturate; osservazione imprecisa per due motivi: 1) il tessuto imprenditoriale medio e piccolo del nostro Paese è ancora abbastanza solido e molto competitivo; 2) anche fosse relativamente ridotta la platea di coloro che possono usufruire di questo welfare complementare, questo comporta comunque un alleggerimento del carico sugli ospedali pubblici, con risparmio indiretto anche per la Sanità statale. Ad ogni modo in Italia oltre 5 milioni di lavoratori godono di un qualche servizio di welfare aziendale (non necessariamente sanitario): non è un numero così irrilevante, anche perché in costante crescita dal 2016”.

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